Era soltanto un giovanotto Frank Cancian, che sarebbe diventato un antropologo di chiara fama, quando, nel 1957, fu inviato da un ateneo americano presso l’Università La Sapienza di Roma, donde fu mandato, dal celebre prof. Tentori, a Lacedonia per documentare la temperie sociale dell’epoca. Ed egli eseguì scrupolosamente, in diversi mesi, il suo compito di studente, scattando 1801 fotografie che costituiscono una testimonianza di grandissima importanza, ormai riconosciuta anche a livello internazionale, dell’esistenza in un “Paese del Sud” nell’approssimarsi del crepuscolo della società contadina, che avrebbe resistito agli assalti della modernità ancora per un decennio circa, e nell’immediata vigilia del boom economico che avrebbe inciso profondamente sul divenire peninsulare, anche se a velocità diverse tra il Settentrione e il Meridione.
Tale collezione costituisce il pilastro sul quale è stato fondato il MAVI (Museo Antropologico Visivo Irpino) ed ha attratto l’interesse di antropologi famosissimi.
Se, da una parte, il team dell’Università di Salerno, guidato dal prof. Esposito, sta compiendo uno studio mirato, dall’altra il prof. Faeta ha prodotto un libro su Cancian e sulle sue fotografie, avendo peraltro partecipato di recente a diversi programmi televisivi e radiofonici sulle reti nazionali. Anche il documentario girato da Michele Citoni, 5x7- Il paese in una scatola, sta raccogliendo notevoli consensi nell’ambito di concorsi nazionali ed internazionali. Peraltro un estratto della collezione Cancian è ancora in mostra, curata proprio dal Faeta, presso il Museo delle Civiltà di Roma.
Il 24 novembre dello scorso anno, dunque, Frank Cancian è transitato ad altra dimensione. Era comunque ritornato per due volte a Lacedonia, la cui comunità lo aveva accolto in maniera estremamente cordiale ed affettuosa e che di certo non potrà dimenticarlo, stante il fatto che il Museo de quo ne perpetuerà il nome trasmettendolo alle nuove generazioni.
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Viveva in Sardegna da decenni Michelangelo Caggiano, scomparso recentemente al termine di una triennale guerra combattuta contro una malattia feroce, di quelle che molto raramente lasciano scampo, ma combattuta dal nostro concittadino con grande coraggio, lo stesso che aveva caratterizzato la sua intera esistenza. Personalmente nutro di lui un ricordo estremamente nitido, quello di persona dotata di una gentilezza d’animo squisita, capace di autentica amicizia, di generosità, altruismo e senso di solidarietà elevati all’ennesima potenza. Era sagace, Michelangelo, ed intellettualmente profondo, essendo egli stato per giunta precursore e precoce interprete nelle nostre zone, tanto nelle idee quanto nei comportamenti, dei rivolgimenti sociali globali intervenuti alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo in seguito al “Maggio francese” e passati alla storia, complessivamente, sotto il nome di Sessantotto. Aveva compreso quanto stava accadendo ed aveva aderito alle innovazioni culturali caratterizzanti quell’epoca, la cui portata, probabilmente, molti ancora non hanno capito appieno. L’anelito alla libertà di autodeterminazione, la volontà di realizzare hic e nunc, in quel presente ormai lontano, la giustizia sociale, erano soltanto talune delle istanze che promanavano soprattutto dal mondo giovanile, e Michelangelo le propugnava apertamente, sfidando le consuetudini alquanto farisaiche e falsamente moralistiche che un conservatorismo arroccato su se stesso opponeva al vento del cambiamento, che poi si è immancabilmente prodotto. Erano quelli gli anni nei quali Michelangelo frequentava l’Università di Salerno, entro le cui mura egli era oltremodo conosciuto proprio perché anche in quell’ambito risultava essere in anticipo sui tempi.
Il caro Michelangelo sarà ricordato domani, 14 luglio, in una cerimonia religiosa nel cui corso quanti gli hanno voluto bene si uniranno, in preghiera, alla famiglia. Per tutti resterà il ricordo di una persona che non ebbe mai paura di esternare le proprie idee.
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La comunicazione politica di sei leader nel periodo che va dalla dichiarazione dello stato d’emergenza (31 gennaio 2020) alla fine del lockdown (4 maggio 2020).
È il tema su cui si sviluppa «Virus, comunicazione e politica», il libro di Domenico Bonaventura appena uscito per Aracne Editrice (2021, 176 pp, € 13) e disponibile sul sito della Casa e sulle maggiori piattaforme di vendita di libri online (Amazon,Libreria Universitaria, Libro Co, Ippogrifo, Goodbook).
L’autore, giornalista e consulente per la comunicazione politico-elettorale, analizza questi 93 giorni scegliendo di mettere sotto i riflettori sei leader politici: Conte, Renzi, Salvini, De Luca, Berlusconi, Meloni. Ne viviseziona le strategie e le tecniche di comunicazione, l’utilizzo più o meno accelerato dei social, le uscite sulla stampa, le ospitate in tv, la narrazione scelta per arrivare ai cittadini. E i risultati che ottengono in termini di consenso personale e di consenso al partito.
Quello considerato è un periodo che stravolge la vita del mondo, ed è chiaro che anche il modo di comunicare la politica ne esca completamente cambiato. Il popolo si stringe intorno alle istituzioni e a volte è l’istituzione che si fa politica, come nel caso del presidente del Consiglio, incalzato (già allora) da un Renzi che le prova tutte per cercare di distinguersi dalla sua stessa maggioranza. Se un leader come Salvini risente grandemente del cambio di agenda e della necessità di modificare l’approccio col suo popol, conquista invece la ribalta nazionale Vincenzo De Luca, che fa della durezza di azione e di linguaggio la propria cifra comunicativa. Accanto a loro, Silvio Berlusconi sceglie ostentatamente la strada della responsabilità e della collaborazione istituzionale, mentre Giorgia Meloni mette sul tavolo una strategia che sembra pagare.
Avvalendosi dei contributi di Francesco Di Costanzo (presidente di PA Social), Livio Gigliuto (vicepresidente di Istituto Piepoli) e Michele Zizza (Phd in Strategic Communication – Coris La Sapienza), di un’intervista ad Alessio Postiglione (portavoce del sottosegretario al Mibact) e dei dati di Data Media Hub, l’autore scatta un’istantanea dei mutamenti che il mondo della comunicazione politica conosce in 93 giorni di passione.
Un’analisi approfondita delle tecniche con cui la politica comunica sé stessa nel periodo del lockdown, con un accento sui social: determinanti più che mai nel consentire un rapporto tra leader e seguaci (il caso Conte è emblematico), portano però anche a un divaricamento ulteriore del fenomeno della disintermediazione.
Un fermo immagine di un momento storico, insomma, che segnerà l’avvenire. Della politica e della comunicazione che la racconta.
BIOGRAFIA
Domenico Bonaventura (Avellino, 1984), giornalista e comunicatore. Vive e lavora tra Lacedonia, in Alta Irpinia, dov’è cresciuto, e Roma. Italiano e meridionale fiero e critico, con una passione rovente per il calcio, la politica e le parole. Ha collaborato per nove anni con «Il Mattino» di Napoli. Scrive per diverse testate (Restoalsud.it, Eurocomunicazione.com). Cura un blog su «Il Riformista» ed è fondatore di Velocitamedia.it. Ha lavorato come consulente per la comunicazione per istituzioni, manifestazioni culturali, enti museali e campagne elettorali. Nel 2013 ha pubblicato “Parole e crisi politica” (Ilmioloibro.it).
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